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Kimetsu no Yaiba/Demon Slayer – Recensione

La presente recensione contiene spoiler

Leggere “Kimetsu non Yaiba” è stato bello, intenso e doloroso.

Tanjirō è la generosità e l’altruismo fatti a persona. Ha così tanto buon cuore che mette gli altri sempre al primo posto, sin dall’inizio della storia. Vede la propria famiglia massacrata, la sorella Nezuko sopravvissuta ma trasformata in demone, eppure rischia di farsi uccidere pur di impedire a Tomioka, Pilastro dell’acqua dei cacciatori di demoni, di ucciderla. Perché è straconvinto che Nezuko non ucciderà mai un essere umano, nonostante la trasformazione. Nonostante la vita lo abbia messo alle strette, facendolo precipitare in un profondo baratro, levandogli tutti gli affetti tranne uno, Tanjirō non si arrende e salvare Nazuko diventa la sua ragione di vita. Per farlo deve riuscire a trovare il modo per farla ritornare umana. La strada da percorrere è una sola, lunga, tortuosa, irta di pericoli e piena di nemici che si nascondono dietro l’angolo.

Ma il giovane Tanjirō la percorre a testa alta, compiendo numerosi sacrifici pur di trovare una cura. 

Lungo il cammino incontra tante persone che diventano peri lui una seconda famiglia: Urokodaki-san, che gli insegna le basi per diventare cacciatore di demoni, Zenitsu e Inosuke, che diventano compagni inseparabili, con cui affronta i nemici più temibili; e poi tutti i Pilastri dei cacciatori di demoni, Naoko, Genia, Tamayo. Sono tutte persone che sono state piegate dalle avversità della vita, ma non spezzate. Si sono rialzate dopo vicende atroci e hanno combattuto sino allo sfinimento senza abbattersi mai. Inizialmente i pilastri non vedono di buon occhio il fatto che Tanjirō si porti dietro un demone, quando il suo primo pensiero dovrebbe essere quello di farlo fuori. Arrivano persino a mette alla prova Nezuko per vedere la sua vera natura, ma la ragazzina la supera. Il capo dei cacciatori di demoni, Oyakata, ha già accettato che Nezuko resti al fianco di Tanjirō, ma i pilastri lo fanno per dovere nei suoi confronti.

Eppure con il passare del tempo si ricrederanno tutti, capiranno che la fiducia di Tanjirō nella sorella è ben riposta e finiranno per ammirare ed amare entrambi.

La storia è fatta di tanti scontri, tutti molto duri e avvincenti; il lieto fine non c’è sempre. Tanjirō vedrà morire persone a lui care sino alla fine. Purtroppo la vita è crudele: quando sembra averti concesso un attimo di felicità, ecco che subito dopo si prende qualcosa in cambio.

Ogni morte è dolorosa e frustrante, perché mentre i demoni possono rigenerarsi quanto vogliono, a meno che non venga loro tagliata la testa con la spada nichirin o non vengano esposti alla luce del sole, gli esseri umani se feriti non possono guarire istantaneamente e se colpiti in punti vitali muoiono inesorabilmente.

Perciò il valore della loro vita è così elevato: arrivare a sacrificarla per gli altri, per proteggerli dai demoni è quanto di più generoso possano fare.

Ogni volta che perdono qualcuno Tanjirō ed i suoi amici ne sono devastati, eppure continuano a rialzarsi e a combattere, sino a che non metteranno fine all’origine di tutti i loro mali, quel Kibutsuji Muzan che da più di mille anni uccide vittime innocenti e crea nuovi demoni. E Muzan stesso dà la caccia a Tanjirō, da un lato perché vuole Nezuko, unico demone, insieme a Tamayo, ad essere sfuggito al suo controllo, dall’altro perché vede in Tanjirō una potenziale minaccia.

Mentre ci immergiamo nella lettura scopriamo personaggi dai caratteri più disparati, ciascuno con una personalità peculiare e ben delineata sia dal tratto della matita di Koyoharu Gotōge, sia dai dialoghi che intercorrono tra gli stessi. 

Scopriamo i sentimenti che li muovono, le loro storie passate, tutte peraltro molto dolorose; e non importa che siano umani o demoni, ciascuno di essi ha sofferto. I demoni uccidono senza farsi remore, ma nel momento in cui vengono uccisi ricordano la loro pregressa umanità e spirano confortati dalle preghiere di Tanjirō, capace di provare compassione persino per questi esseri. E anche se il loro destino finale sarà nel Jigoku, procedono per quella strada consapevoli del male fatto ma consci che qualcuno ha pensato a loro anche in punto di morte.

Ma in questa storia non c’è spazio solo per i sentimenti: dopotutto si affrontano delle battaglie, alcune davvero epiche ed intense. Gli scontri sono descritti con delle immagini che rendono molto bene la velocità dei movimenti dei combattenti, la loro forza, agilità, abilità nell’uso della katana o delle arti demoniache. Si resta col fiato sospeso sino alla pagina successiva, o al capitolo successivo, chiedendosi come andrà a finire, se staranno tutti bene o se qualcuno perderà la vita.

Certi momenti sono stati così intensi che mi sono venute le lacrime agli occhi: in particolare alla fine dell’arco del treno Mugen e poi dopo la battaglia finale contro Muzan. 

Non è uno di quei manga dove alla fine di tutto ci si stringe la mano, i morti resuscitano e volemose bene. Qui i morti restano tali, e per quanto anche per il lettore possa essere doloroso vederli morire, è giusto così, non per la morte in sé, ma perché una storia che narra di sacrifici non avrebbe senso se non si ponesse in atto anche il sacrificio estremo.

I colpi di scena sono numerosi e ci sono sino alla fine, sino all’ultima pagina. Non li voglio elencare perché voglio lasciare il piacere di scoprirli a chi leggerà il manga.

Concludo dicendo che il viaggio nel mondo di Tanjrō è stato per me molto bello e che non vedo l’ora che venga fatta la trasposizione anime degli archi narrativi restanti. Perché se tanto mi dà tanto, assisteremo a degli episodi belli quanto è bella la storia scritta e disegnata su carta.